“A caccia di ricordi: dal fucile al calamaio ..” – Pubblichiamo il racconto che ha vinto la I° edizione del concorso

REdolfi560512_508951559195129_303772770_nA vincere il primo concorso letterario libero a tutti è stato il sig. Federico Gallo con il racconto “FAIS” – a lui il primo premio : una carabina Bergara Scout offerta dall’armeria REDOFI ARMI di Manerbio (Bs).

Vi ricordiamo che questo primo concorso letterario si è potuto svolgere grazie a Laura Tenuta, antropologa romana, che ne è stata l’ideatrice e curatrice, e al nostro sito web www.cacciaedintorni.it.

Un grazie ancora ai giudici  per la professionalità e competenza dimostrata e un grazie a tutti gli sponsor che hanno sostenuto la nostra iniziativa.

Vi ricordo anche che saranno pubblicati anche gli altri racconti.

Caccia & Dintorni – la redazione

 

FAIS

 

La stagione si presentava buona. Dopo l’acqua dell’ottobre e i primi freddi già si vedevano branchetti di fringuelli e i tordi che zirlavano schizzando dalle siepi di lentisco a bacche rosse. Io avevo curato l’allenamento del mio Fais con ogni diligenza. Quaglie tutta l’estate e coturnici dalla metà settembre. Si era irrobustito e aveva riempito le sue fasce muscolari di volumetrie lisce e lunghe. Pelo lucido, splendente, setaceo con frange abbondanti e folte. La coda a scimitarra, corta e bassa fra i garretti, come si conviene a un dignitario che indossa il suo abito a coda di rondine. Le macchie nere sulle orecchie e  le guance, con la moschettatura fuoco sul muso, ne facevano un simpatico pirata. Sembrava prendersi gioco di me quando mi guardava negli occhi. Pensavo e godevo. Godevo e  pensavo alle beccacce che ormai erano sul piede di partenza dalle loro residenze ormai innevate. Bastava una scrollata di neve, una tramontana vera rigida e fredda con l’aria serena delle giornate che ti fanno stringere nella cacciatora col colletto di velluto. Lui mi aspettava per l’appuntamento mattutino. Quando non si andava a caccia  mi chiamava  alla solita ora con tre abbai secchi. Io intimavo “Cuccia”  E la finiva lì. ”Stai bravo, arrivo” e uggiolava come se bofonchiasse un dolce “Grazie”. Ma i cani parlano? Non so, però si fanno capire. Eccome! In novembre ci arrivammo con ansia repressa. Le foglie ormai ingiallivano; noi battevamo qualche querciolaia, tanto per vedere come era l’humus, come si era formato l’habitat per accogliere le regine. C’erano tutte le condizioni. Nella seconda decade andammo in montagna per cercare  il brivido del primo incontro. Nella valle del Germano era già freddo. Monte Spina era tutto bianco di neve. Lungo la sorgente del fiume Neto, gli alberi erano ormai nudi. Quelli da frutto avevano le foglie rosse che sembravano stendardi, erano punti di riferimento per orientarsi fra le fitte ramaglie. In verità un paio di peri ruvidi e sbracciati mi servivano come memento per diverse beccacce trovate, alcune abbattute con un secco colpo del mio Hemingway. La prima che trovammo fu verso il 20.Scorsi quel brigante steso nelle felci. Non aveva fatto nemmeno suonare il campanello nell’accostare e fermare. Tale era la sua guardinga attività e il movimento ordinato da setter felino e radente. Sparai, raccolse e ridemmo complimentandoci. Lui scodinzolando e tentando di levarmela di mano, io tirandogli un orecchio benevolmente e offrendogli una scorza di formaggio di capra. Rideva mostrando i denti e piegando la testa di lato. In realtà non vi era stato niente di straordinario né da parte mia né sua. Era solo un’azione coordinata e ben riuscita che sembrava preludio ad una buona stagione. E così fu. Verso il trenta si scatenò Eolo e le tormente di neve coprirono le tre Sile: la piccola, la grande e la greca, di un candido mantello. Le colline nere di pino laricio col cappello di nuvole erano statiche come non mai. Non uno spirare di vento, non un canto, non un fremito. La natura sembrava imbalsamata. Solo i campani delle vacche podoliche segnavano il logorio del tempo sulle cose umane. Mi ero affrettato a preparare un bel mucchietto di cartucce col piombo dell’otto. Si avvertiva da tempo odore di neve sulle gobbe di quei monti maestosi. Quel giorno uscimmo senza auto, i monti erano vestiti di bianco, dovevamo cacciare in basso sulle colline della Luna. Lui stava al dietro e, fino al muretto di fuor di via, non si mosse dal calcagno. Poi, allo schiocco delle dita, partì come un fulmine e cominciò a sondare il cespugliato fitto di ginestre e lentisco con arbusti a pagliaio  e altri alti a ginocchio. La valle era tutto uno zirlare di tordi che dall’uliveto andavano al pascolo nei campi. Fermò, facendo precedere la solita gattonata. Lo raggiunsi, aveva lo sguardo ardente e spiritato, la teneva; sparai. Seguirono altre ferme e altri spari. La ladra diventò presto pesante ma volevo fare la giornata da non dimenticare. E la feci. Decisi di abbandonare la valle del Fiumefreddo e di spingermi verso le grotte dello Scavo. Su per la fustaia di pioppi e fra le eriche non alte sapevo che ne avrei trovate ed era anche facile sparare. Da li potevo procedere anche  fino alla  Serra dello Spineto, voltare a destra, scendere verso le sorgenti del Vitravo e rientrare per l’ora del pranzo. Accelerai, servendo il cane di quando in quando,mentre mi gonfiavo d’orgoglio per quel suo incedere, quel movimento facile e ovattato da vero setter, per le ferme plastiche ed eleganti, per i suoi riporti a bocca asciutta e quel recupero di una  disalata che il vento se l’era portata via dietro i pioppi alti. Unica folata in una mattinata greve. Quel recupero da dio era servito per condire una insalata che era già troppo profumata. Allungammo mentre palpavo la ladra. Conteneva ben undici regine dalle penne lisciate e col becco accostato al petto come se dormissero. Le avevo baciate tutte prima di riporle, sussurrando piano: ”Scusa se ti ho rubato la vita. ”Nessun uomo circolava per il tratturo. I campi erano solinghi, anche gli animali bradi erano allo stallo. I mezzi agricoli  fermi nei campi o a margine di strada. Avevo incontrato solo un pastore al bivio di Fratta, mi aveva invitato insistentemente a rientrare come faceva lui. Aveva governato e chiuso le sue bestie perché non se la sentiva di stare fuori con quel tempo che minacciava ulteriormente di incrudire. Fais si era inoltrato, di là dai pioppi e verso la cascata. Il terreno era fitto di peri selvatici e biancospini  stranamente fioriti. Chissà, l’umidità del posto e forse il riparo delle piante alte aveva controllato quella depressione riparandola dai venti freddi. Ecco perché vi erano sempre le Beccacce. Pensai al fenomeno climatico,mi distrassi a guardare e pensare e non mi accorsi che il campanello non suonava più argentino. Tutto era silenzio. Vidi delle ombre nel fitto delle eriche basse ma non ci feci molto caso. Un pettirosso  trillò allarmato ai margini dello stradello, un poco più avanti. Non ne capivo la ragione. Ero ancora lontano, chi lo aveva disturbato? All’improvviso avvertii un brivido per la colonna vertebrale. Pensai che il sudore  si fosse ghiacciato addosso e decisi di muovermi. Non era così, era un brivido intenso e  mi scuoteva le membra. Tremai, misi il fucile a spalla per paura mi cadesse.  Avvertii un’ansia incredibile e angosciosa mentre mi avventavo nella boscaglia verso la cascata gridando, chiamando, urlando la mia disperazione. Un presentimento mi assaliva e pensavo a quelle ombre cui non avevo dato peso. Cercai a lungo in tutte le riposte, là dove io sapevo che le beccacce erano solite fermarsi. Nella terza riposta lo vidi. Bianco e steso, steso e bianco e rosso. Rosso di sangue e con la gola squarciata. “I Lupi, maledetti!“ Urlai come un disperato e sparai in aria. “I Lupi!” Ma era tardi. Lo avevano sorpreso sulla ferma e lui non aveva potuto sentirli,  ebbro di un odore amato, né difendersi o scappare. Aveva l’odore della beccaccia nel naso e i maledetti lo avevano sorpreso da tergo certamente. Sparai ancora due colpi per la frustrazione e la rabbia, poi buttai il fucile e lo presi in braccio. Era morente, caldo, palpitante ma ormai dissanguato. Dalla gola squarciata correva a fiotti il sangue rosso e si coagulava sul pelo sericeo. Lo posi delicatamente in terra e lo piansi. Fino alle due. Era freddo lui ed ero freddo anch’io quando decisi che aveva bisogno di una sepoltura. Dovevo privarlo dell’oltraggio di essere anche divorato e non volevo portarlo a casa. Quella doveva essere la sua dimora per sempre. Afferrai il coltello da caccia, raggiunsi un poggio da dove si vedeva l’orizzonte e s’indovinava  il mare verso est. Scavai, scavai. Lo deposi dentro con delicatezza, dopo avergli avvolto la splendida testa bianconera con le moschettature rosse, nel mio maglione di lana. Cercai delle pietre e ne feci un monticello. Le ultime le disposi in forma di freccia. Rivolte verso est. Da dove arrivano le beccacce. Perché lui, nei suoi sogni ormai infiniti, potesse avvertirle da lontano e continuare a puntarle. Quando torno in quel luoghi vado a trovarlo. Sulle pietre è nato il muschio ma la freccia si scorge ancora.

 

Federico Gallo

 

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2 Commenti

  • Marcello Laviano

    Buongiorno,che fine hanno fatto gli altri racconti che hanno vinto?Non avevate promesso di pubblicarli?
    Cordiali saluti
    Marcello Laviano

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